Testimonianza di Settimia Spizzichino
Settimia Spizzichino
Roma
Quando il treno si fermò alla frontiera del Brennero, tutti applaudimmo alla vista della bandiera italiana. Dio, non sembrava vero. “Gli ebrei presenti sul treno proveniente dalla Germania sono pregati di presentarsi alla Crocerossa” – gracchiò un altoparlante. Gli appelli non ci piacevano e non volevamo muoverci dal vagone. “Dai, belle, andate, non vi succede niente” – ci incoraggiavano i soldati; e un toscano grande quanto un armadio si offrì d’accompagnarci.
Alla tendopoli della Crocerossa ci fecero entrare, uno alla volta, in una tenda e ci chiesero la nostra storia: chi eravamo, quando eravamo state deportate, dove erano gli altri. Parlai per ore e raccontai tutto, anche delle camere a gas e dei forni crematori. Loro annotarono ogni cosa senza fare obiezioni. Venni in seguito tratto dal libro da lei scritto con Isa Di Nepi Olper nel 1996, “Gli anni rubati”, erano stati presi per pazzi. Ma a noi dovettero credere, ormai le testimonianze erano troppe e tutte concordi. Patria. […]
E quasi all’improvviso fummo a Roma. Arrivammo a piazza Vittorio. Nel grande mercato, che ancora oggi è sulla piazza, c’erano molti banchi gestiti da ebrei. Tra questi c’era Ninetta, la vicina che si era salvata dalla razzia insieme a mio padre.
Quando scendemmo dal tram mi vide; si mise a gridare: “Settimia! C’è Settimia!” E mi corse intorno. Tutti gli altri la seguirono, ci circondarono con baci, abbracci, lacrime. Fermarono un taxi, ci fecero salire e il taxi ripartì con tante persone aggrappate alle portiere. Arrivammo a S. Elena. Era giunto il momento si separarci. Ci salutammo imbarazzate: “Ci vediamo presto…”. E ognuno andò per la sua strada. Imboccai la via di casa gridando: Mamma, sono io, sono qui”. Speravo contro ogni possibilità che anche lei fosse tornata. La gente si affacciava alla finestra, una sorella di mia madre riconobbe la mia voce, scese e mi si precipitò incontro. Per un attimo credetti di vedere la mamma. Anche da casa mia avevano sentito; le mie sorelle Enrica e Gentile erano al portone con mia nipote Letizia. Mi si buttarono al collo piangendo e ridendo. Erano le tre e mezza del pomeriggio dell’11 settembre 1945 quando finalmente rientrai nella mia casa. Poco dopo l’appartamento era pieno di gente che veniva a darmi il bentornata. Molti venivano ad informarsi di parenti ed amici deportati con me. Purtroppo non avevo buone notizie per nessuno. “Non so! Li ho persi di vista – dicevo -. Molti di loro hanno perso la memoria, vedrete che presto o tardi torneranno”. Ma io ero stata una delle ultime a tornare; dopo di me tornarono solo altre tre-quattro persone.
Ancora oggi succedono cose terribili: le guerre, i massacri, la pulizia etnica… ognuna di queste cose mi fa rivivere la mia tragedia personale, mi riporta alla mente quello che ho passato. Anche per questo, per evitare che cose simili accadano ancora, io continuo a ricordare e a raccontare; per questo e per la memoria di quelli che non sono tornati. […]
Per tutti gli anni che ci hanno rubato, che hanno rubato ai milioni di uomini, donne, bambini – specialmente bambini! - che sono rimasti nei Campi. Quanti anni di vita sono andati in fumo nei forni crematori dei Lager, nel più mostruoso furto della storia?
Seguiterò a raccontare finché avrò vita. Per questo, credo, sono tornata: per raccontare.