Lia Finzi Federici
Venezia
1938
Fu la nuova maestra, che mi era sembrata bellissima, a dirmi: “Lia, prendi i tuoi libri e i quaderni di buona, perché in questa scuola non puoi più venire”.
“Anche domani?”, chiesi.
“Mai più”, mi rispose e mi mandò a casa. Da sola.
Non mi disse il perché. Mi fece uscire che non era ora di uscita, quindi con una grossa responsabilità: avevo dieci anni, ero una bimba. Uscii con i miei quaderni e tornai a casa. Naturalmente non capivo: “Perché mi hanno mandata via? Questa maestra perché non mi vuole?”.
Cosa poteva sapere una bambina di dieci anni di cosa fossero le Leggi razziali? Ero proprio soltanto una bimba.
Giocavo molto con le bambole a fare le “signore” con Ebe e a recitare raccontando storie di film o di novelle lette: questo era quello che preferivo.
Mia mamma cercò di spiegarmi. Arrivò mia sorella, che aveva quindici anni e frequentava le magistrali, disperata, veramente disperata. Entrò in casa urlando che nessun professore aveva detto niente, soltanto la sua compagna di banco Ada Lotto rimase sconvolta. Il preside l’aveva chiamata e le aveva detto: “Guarda che non puoi più venire in questa scuola” e non le fu detto il perché. Intanto era arrivato a casa anche mio padre e ci ha spiegato che purtroppo c’erano delle leggi: le Leggi razziali antiebraiche.
Mio padre era sempre stato antifascista, non aveva mai avuto la tessera del partito di Mussolini, anche per questo non lavorò mai in uffici pubblici. Cercò di spiegare, a me e ad Alba sconvolte e in lacrime, cos’è una dittatura. Quel giorno, all’inizio dell’anno scolastico 1938.
[…]
Una volta arrivai spaventata con il rabbino Ottolenghi fino al suo portone, lui mi accarezzò il volto e mi disse: “Non avere paura, sento sai che stai tremando” e mi baciò la fronte. Ero spaventata perché non avevo fuggire rapidamente come al solito dopo le canzoni dei balordi.
Cosa poteva capire Ebe del comportamento di quei monelli che avevano imparato a offenderci perché diverse? No, a lei le poche volte, sempre meno, che l’incontravo non raccontavo le offese di quei ragazzi o di quelle di alcune bambine, ex compagne di scuola “Alfredo Oriani” di San Maurizio, che in Campo Sant’Angelo mi urlavano: “Sporca ebrea”.
Andavo sempre meno in campo a giocare “alla corda”, “al campanon”, a “nascondino”. Lì non volli più andare perché quelle bimbe, che negli anni precedenti avevano giocato con me, non vedevano più che il mio collettino era bianco e pulito. Avevo imparato a sentirmi diversa. Diversa in cosa?
Nel dover camminare così tanto per tornare a casa da scuola, nell’aver paura di quattro o cinque monelli, oppure perché io avevo imparato ad andare al tempio di sabato e Ebe, invece, andava in chiesa di domenica? Giocavano molte di queste novità. In fondo mi piaceva essere diversa, soprattutto quando incomincia a frequentare la scuola ebraica.