INQUADRAMENTO STORICO

I testi che presentiamo all’attenzione di docenti e studenti, i percorsi di vita che individuano, le vicende che descrivono sono come è evidente un tassello piccolissimo della storia che intendono trasmettere, ma hanno al tempo stesso la pretesa di rappresentarla, come una finestra che si apre su un amplissimo panorama. È la storia degli ebrei in Italia, e in particolare in Piemonte, fra il 1938 e il 1945, fra le leggi razziali, che tolgono agli ebrei i diritti, e la Liberazione, a cui essi hanno ampiamente partecipato, che glieli restituisce e che li reinserisce nella storia della più ampia nazione italiana.

Una premessa è però necessaria prima di arrivare a quell’anno terribile, il 1938, con cui iniziano le nostre testimonianze, che vede gli ebrei italiani, dopo quasi settant’anni di piena cittadinanza, essere riportati in uno stato di oppressione e minorità civile. Perché la storia degli ebrei in Italia è una storia lunghissima, di oltre duemila anni. Una lunga storia, fatta di discriminazioni e oppressione ma anche di grande vivacità culturale e di intensi rapporti con i non ebrei. Per limitarci ai secoli più vicini a noi, nell’Ottocento gli ebrei italiani partecipano alle lotte risorgimentali e la loro emancipazione, cioè l’uguaglianza dei diritti e la cittadinanza, si accompagna alla costruzione dell’Italia. Un’Italia in cui tutti i non cattolici, ebrei e protestanti, godono dei pieni diritti, sono uguali agli altri cittadini italiani. Successivamente, gli ebrei partecipano con fervore alla prima guerra mondiale, pensando di ripagare con il loro sangue l’uguaglianza raggiunta. Più tardi, molti aderiscono al fascismo, in cui si illudono di vedere il perfezionamento della loro identità nazionale italiana. Fino al 1938, gli ebrei sono cittadini italiani a tutti gli effetti, in tutti i sensi uguali agli altri italiani. E questo è particolarmente vero per il Piemonte, che è stato il primo Stato a concedere loro la piena emancipazione, nel 1848.

Le leggi antisemite del 1938

Le leggi antisemite del 1938 sono precedute da un clima razzista e antisemita generale che colpisce inizialmente gli africani delle colonie italiane. Dopo che nel 1937 la propaganda antisemita in Italia si accentua, ecco le leggi antisemite del 1938, che partono dal cosiddetto Manifesto della razza, dell’agosto 1938, opera quasi per intero dello stesso Mussolini, per produrre in rapida successione norme che eliminano gli ebrei dalle scuole e dalle università, in vesti sia di studenti che docenti, dall’esercito, dalla politica, dagli impieghi statali, dai giornali, dalle aziende. Fin i loro libri sono espulsi dalle biblioteche. I divieti sono infiniti. Non viene ricostituito il ghetto, ma ciò che si crea è un gigantesco ghetto immateriale.
Le leggi del 1938 rappresentano una grave ferita non solo per il mondo ebraico, così direttamente colpito, ma per l’intero Paese uscito dal Risorgimento su ben diversi principi, quelli dell’uguaglianza dei cittadini, di qualunque credo religioso, di fronte alla legge. Le leggi razziste furono applicate rigorosamente, in particolare quelle sulla scuola, e già dall’inizio dell’anno scolastico 1938-39 le scuole italiane restarono prive di docenti e di studenti ebrei. Per riparare al danno, le Comunità formarono, o incrementarono ove già esistenti, le scuole ebraiche. Nel frattempo, mille altre proibizioni si abbattono sugli ebrei italiani, togliendo loro i posti di lavoro, riducendoli sovente in miseria. L’unica norma non applicata che in minima parte fu quella dell’espulsione degli ebrei stranieri, che erano entrati numerosi in Italia per fuggire l’antisemitismo nazista. Tale inefficacia era dovuta al fatto che nel 1938 tutti i Paesi nella conferenza di Evian avevano chiuso loro le porte. Inoltre, le leggi del 1938 avevano tolto la cittadinanza italiana a tutti gli ebrei che l’avevano ottenuta dopo il 1919 (data della fine dei rivolgimenti territoriali dopo la I guerra mondiale), riducendoli allo stato di apolidi, senza patria.
La piccola minoranza ebraica si assottiglia. Nel 1938, quando il regime aveva imposto un censimento degli ebrei italiani, erano circa 45000, uno su mille la loro proporzione sull’intera popolazione italiana. Seimila circa sono quelli che, nonostante le difficoltà, riescono ad emigrare verso sponde più accoglienti, altre quattro-cinque mila circa i battesimi, che poco serviranno a salvare gli ebrei battezzati sia dalle leggi del 1938 che si basavano sul sangue e non sulla religione professata sia durante la Shoah. Ad essere in gioco, fino al 1943, non sono ancora le vite degli ebrei, ma i loro diritti, le modalità della loro esistenza.

La svolta del 1940

Una svolta significativa avvenne nel giugno 1940, quando l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania, e tutti gli ebrei stranieri, oltre agli ebrei italiani sospettati di antifascismo, vennero internati, in una vasta campagna che non riguardò solo gli ebrei ma gli stranieri di nazionalità nemica, gli oppositori interni, più tardi i civili dei territori occupati dall’Italia, come la Jugoslavia, e i militari nemici prigionieri.
Nel 1942 il regime decise il lavoro coatto per tutti gli ebrei fra i 18 e i 55 anni, a compensare la loro esenzione dal servizio militare, un provvedimento volto ad umiliarli e ad accrescere l’effetto della propaganda antisemita. Ma fino al 1943, nell’Italia non ancora occupata, gli ebrei italiani e quelli stranieri rifugiati sul territorio non furono mandati in deportazione, come invece successe a partire dal 1942 nei paesi occupati dai nazisti. Molte sono tuttavia le continuità fra gli anni del regime fascista e quelli, dal 1943 al 1945, dell’occupazione nazista e della repubblica di Salò: in primo luogo, il censimento degli ebrei italiani attuato nel 1938, che fu poi utilizzato dai nazisti per individuare gli ebrei e deportarli.
Il 1942 fu l’anno in cui le potenze dell’asse sembravano invincibili e il destino dell’ebraismo europeo segnato. Alla fine del 1942 la situazione militare si era rovesciata, in seguito alla sconfitta dell’asse a Stalingrado e a El Alamein sul fronte nordafricano. Nel luglio 1943 gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Il 25 luglio del 1943, il regime fascista cadeva. Mussolini, liberato dai tedeschi, diede vita al Nord alla Repubblica di Salò. Oltre 800.000 soldati e ufficiali vennero fatti prigionieri dai tedeschi, che erano intanto scesi in Italia e l’avevano occupata fino a Napoli, città che alcuni giorni dopo sarà liberata da un’insurrezione popolare. Roma, dopo aver tentato invano, con la partecipazione di soldati, carabinieri e popolo, una ineguale resistenza a Porta San Paolo, fu anch’essa occupata. Tutti quelli che non aderirono alla Repubblica di Salò vennero deportati: poliziotti, soldati, membri dell’apparato statale. Il 13 ottobre l’Italia dichiarava guerra alla Germania. Cominciava una notte destinata a durare al Nord quasi venti mesi, nove a Roma, dichiarata unilateralmente da Badoglio “città aperta”, ma non riconosciuta come tale dai tedeschi e, di conseguenza, dagli Alleati. Iniziava ovunque la Resistenza. E per gli ebrei, cominciava la deportazione.

La deportazione

Su 58.000 ebrei presenti in Italia, gli ebrei deportati dall’ Italia durante la Shoah furono in tutto circa 7500, i morti identificati 6257. Degli ebrei deportati, solo il 6% è sopravvissuto. Il 23 settembre 1943 giunse da Berlino l’ordine di deportare tutti gli ebrei presenti in Italia e i nazisti cominciarono, nel massimo segreto, ad organizzarne l’arresto. La prima retata si svolse il 9 ottobre a Trieste ad opera direttamente dei tedeschi, dal momento che la città faceva parte della zona del Litorale Adriatico, sottoposta non a Salò ma alla diretta amministrazione tedesca. Il 16 ottobre toccò a Roma, ad opera dei soli tedeschi. 1023 i deportati, tornarono solo 16. I tedeschi avevano previsto di far precedere la retata di Roma da quella degli ebrei di Napoli, ma le Quattro Giornate e la conseguente liberazione della città lo impedirono. Successivamente le SS, aiutate dai militi di Salò, compirono altre retate a Firenze, Bologna, Torino, Milano e Genova. Per deportare gli ebrei, in Italia difficilmente distinguibili dai non ebrei, furono usate le liste del censimento del 1938, aggiornate nel 1942, liste che il governo Badoglio non aveva distrutto o nascosto.
Il 14 novembre Mussolini da Salò emanò la Carta di Verona che stabiliva che tutti “gli appartenenti alla razza ebraica” erano da considerarsi stranieri e nemici. Il 30 novembre veniva emanato l’ordine di arrestarli su tutto il territorio nazionale. Tutti i loro beni dovevano essere confiscati. I bambini dovevano seguire la sorte dei loro genitori (cioè essere arrestati e deportati), solo i vecchi di età superiore a 70 anni potevano essere lasciati liberi (norma che i tedeschi non riconobbero arrestando da parte loro anche gli ultrasettantenni). Gli ebrei arrestati dovevano essere rinchiusi in appositi campi e poi essere consegnati ai nazisti per la deportazione.
A partire dalla fine di novembre, la caccia all’ebreo in Italia fu così condotta prevalentemente dai militi fascisti di Salò. Oltre la metà degli arresti fu attuata da italiani. Senza la loro attiva collaborazione gli ebrei arrestati in Italia sarebbero stati un numero molto minore perché i tedeschi, impegnati a contrastare l’avanzata alleata, non erano in grado di procedere da soli all’arresto e alla deportazione degli ebrei presenti in Italia.

Campi di transito, campi di concentramento, campi di sterminio

Il punto di raccordo tra fascisti di Salò e nazisti fu il campo di transito di Fossoli, da dove partirono i convogli, principalmente per Auschwitz. Da Fossoli partì nel febbraio 1944 il convoglio per Auschwitz che trasportava anche Primo Levi. Dall’agosto del 1944 in poi, il campo di transito fu spostato a Bolzano, per sfuggire all’avanzata alleata. Gli ebrei arrestati a Trieste furono raccolti nel campo di concentramento della Risiera di San Sabba, l’unico in Italia ad essere anche campo di sterminio perché munito di una camera a gas. A realizzare la deportazione non furono solo i nazisti, essi furono attivamente aiutati dai militi della Repubblica di Salò.
L’intera Europa era un immenso campo di concentramento. I campi di solo sterminio, riservati ad eliminare gli ebrei, erano situati in Polonia. Il più importante era quello di Auschwitz Birkenau dove furono deportati la maggior parte degli ebrei italiani, oltre a non pochi politici. Una parte dei deportati furono trasferiti, nei campi in Germania – Dachau, Bergen Belsen, il campo femminile di Ravensbrück – nelle terribili marce della morte attuate quando Auschwitz interruppe l’arrivo dei convogli e chiuse le camere a gas, di fronte all’avanzata dell’esercito sovietico, alla fine del 1944. Le narrazioni toccano il momento dell’arresto e la vita terribile nei campi. E sono le narrazioni dei sopravvissuti, dei “salvati”. Quelle dei “sommersi” non potremo mai averle.

Fughe, nascondimenti, salvataggi, delazioni, arresti

Dopo la prima fase delle deportazioni, tra l’ottobre e il novembre del 1943, una gran parte degli ebrei italiani si nascose. Chi poteva si procurò documenti falsi, fabbricati dalla Resistenza, da tipografie pubbliche o private e dalla Chiesa, e trovando rifugio in case private, ospedali, chiese, conventi, istituzioni ecclesiastiche. La storia di tutte le famiglie ebraiche che sopravvissero alla Shoah è fatta di fughe, nascondimenti, arresti mancati per pochi istanti, paure, dolori per i famigliari scomparsi, attese di chi non è tornato. Storie tutte diverse e tutte simili, che si tramandano in alcune famiglie, vengono a lungo occultate in altre, preferendo una normalità di vita che questo passato sotto tanti aspetti simile a un romanzo sembrava non garantire a sufficienza. Molti sfuggono alla deportazione nascondendosi nelle campagne. Al Nord, numerosi sono coloro che trovano, tra mille difficoltà e rifiuti, asilo nella neutrale Svizzera. Al centro, molti cercano di superare le linee e di passare al Sud liberato. Ma molti sono anche coloro che si uniscono alla Resistenza. Si calcola che il numero dei partigiani ebrei in Italia sia stato tra i 1000 e i 2000, un numero molto alto sia in rapporto all’entità numerica degli ebrei italiani sia in rapporto al numero dei partigiani. Non ci furono in Italia, come invece ci furono nell’est Europa, gruppi partigiani composti da soli ebrei. I numeri erano troppo piccoli per consentirlo, l’ambiente partigiano era privo di quell’antisemitismo che invece caratterizzava molta parte dei partigiani all’est Europa. E inoltre i partigiani ebrei italiani si sentivano italiani, italiani oltre che ebrei. La famosa Brigata ebraica, che partecipò a combattimenti in Emilia e Romagna, non era formata da partigiani, ma da ebrei della Palestina inquadrati nell’esercito inglese, e non appartiene quindi alla storia della Resistenza ebraica in Italia.
Non pochi furono i delatori, grazie anche alle taglie che i nazisti ponevano sulle teste degli ebrei: 5000 lire per ogni uomo, 3000 per ogni donna, 2000 o 1500 per ogni bambino. C’era poi la larga fascia degli indifferenti, coloro che hanno lasciato che il male si compisse senza reagire. E poi ci fu chi aiutò, spesso a rischio della sua stessa vita. Non tutti, evidentemente. Ma molti sono quelli che salvano, che aiutano, che si sentono coinvolti di fronte alla minaccia di morte che pesa sugli ebrei per il solo fatto di esser nati ebrei. Si aprono le porte dei conventi e degli istituti religiosi, non solo agli ebrei ma a tutti gli oppositori dei nazisti, partigiani, soldati che rifiutavano il giuramento a Salò. Altri si nascondono negli ospedali, nelle case della gente comune, amici, conoscenti, o più semplicemente persone che ritengono loro dovere aprire la porta ai perseguitati. I racconti dei sopravvissuti sono pieni di memorie di questi gesti quotidiani, nella grande maggioranza mai riconosciuti. È una storia in molta parte ancora da raccontare e documentare, molte delle cui vicende di salvataggio, eroismo, amicizia e riconoscenza ritroviamo in queste memorie. Il memoriale di Yad Vashem, a Gerusalemme, ha tributato nel corso degli ultimi settant’anni il titolo di Giusti a molti di questi salvatori, riservandolo a quei non ebrei che nel corso della Shoah avevano salvato anche soltanto un ebreo fuori da ogni interesse e a rischio della loro incolumità.

Gli ebrei del Piemonte nella Resistenza

Negli anni fra il 1938 e il 1945 la storia degli ebrei in Piemonte non si differenzia molto da quella degli ebrei del resto d’Italia. Più stretto appare però il rapporto con la Resistenza, dovuto in parte alla notevole politicizzazione del mondo ebraico piemontese e in particolare torinese, integrato, socialmente medio e alto borghese, non troppo osservante delle pratiche religiose – una buona descrizione ne possiamo trovare negli scritti di Primo Levi, e forse anche erede di quell’antifascismo che era stato represso col carcere e il confino negli anni Trenta e di cui si era, fino alle leggi razziali, quasi perduta memoria fra gli ebrei torinesi. La generazione nata intorno agli anni Venti riscopre sotto la spinta della perdita dei diritti quell’antifascismo riflette, si interroga, e finisce per gettarsi nella Resistenza. Non tutti, ma molti di loro. E si interroga anche sulle sue radici religiose, in parte riscoprendole in parte mettendole comunque al centro della riflessione. Sono le riunioni nella Biblioteca della Comunità di tanti giovani ebrei torinesi, in cui si parla di politica, di ebraismo, di sionismo, e che hanno fra i protagonisti Primo Levi ed Emanuele Artom, morto partigiano arrestato dai fascisti in Val Pellice e assassinato a Torino. Durante la lotta partigiana importante è il ruolo delle Valli di Lanzo, in cui si realizza una stretta collaborazione fra ebrei, non necessariamente partigiani ma molti anche là rifugiati fin da dopo il 1938 e Resistenza. E quello della Val Pellice e dell’attigua Val Germanasca, dove stretto è il collegamento tra ebrei e valdesi e dove due ebrei, Giorgio Diena e Vittorio Foa, scriveranno già nei primissimi giorni dopo l’occupazione nazista, il programma per la Resistenza e l’Italia post-fascista del Partito d’Azione. Lo stesero là, raccontavano, perché era, per loro ebrei, una sorta di luogo protetto.



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