Lettera scritta all’amica Carla a metà febbraio del 1946, dopo il rientro in Italia e citata nel “racconto e testimonianza per la scuola secondaria” di Barbara Napolitano pp. 6-8 relativa ai temi dell’arresto e della deportazione.
Elena Recanati
Torino
Febbraio 1946
…Pensa che quando siamo stati arrestati, in un paesino di montagna nel Canavese (per una denuncia di “favoreggiamento ai partigiani e sospetta appartenenza alla razza ebraica”) hanno preso mio suocero, mio marito, il bambino e me, e tutti insieme ci hanno portati a Torino.
Era il 9 agosto 1944, giusto il secondo anniversario del nostro matrimonio. Ci hanno messi su un camion scortato da repubblicani armati e da S.S. Guido e suo padre erano dietro in mezzo ai partigiani fatti prigionieri, io con Massimo in braccio stavo davanti accanto all’autista con al fianco un S.S. che mi guardava in un modo che sembrava mi volesse fulminare con gli occhi. Durante il viaggio abbiamo avuto uno scontro: i partigiani che speravano di liberarci hanno iniziato il fuoco. Una pallottola ha rotto il vetro proprio all’altezza del mio viso. Io mi ero chinata per coprire il bambino e la pallottola ha fischiato sulla mia testa. Questo è stato l’inizio della nostra tragedia. A causa di questo incidente il viaggio per Torino, che avrebbe dovuto durare un’ora, è durato tutto il giorno. Naturalmente Massimo era a digiuno, povero piccolo, ed io ero preoccupatissima per lui. Finalmente alle sette di sera arrivammo a Torino, e ci portarono alle Carceri Nuove. Al portone mi separarono da Guido. Figurati in che stato d’animo eravamo. Sono stata per dieci giorni chiusa in una cella con Massimo, che aveva allora nove mesi. Io non avevo più latte, e non sapevo come nutrire mio figlio. Faceva un caldo soffocante, la cella era di un sudiciume inaudito (passavo tutta la notte sveglia per ammazzare le cimici, innumerevoli, perché non andassero addosso al bambino), avevo pochissima acqua e non sapevo come fare a tenere pulito il bambino; per di più ogni giorno e notte, bisognava d’un tratto precipitarsi in rifugio a causa dei bombardamenti. Il rifugio era il sottosuolo delle prigioni: una grotta così umida e fredda che l’acqua gocciolava dalle pareti. E sapevo che Guido non poteva scendere, ma anche sotto i bombardamenti doveva rimanere chiuso nella sua cella. Erano ore di pena infinita.
Finalmente dopo dieci giorni riuscii a parlare con l’interprete del comando tedesco. Era, caso strano, molto umano: tant’è vero che con il suo aiuto riuscii ad ottenere il permesso di far uscire il bambino e poter affidarlo alle cure di una persona, che avrebbe però, secondo gli ordini, dovuto tenere Massimo in Torino, a disposizione delle autorità.
Invece riuscii a far dire, dalle suore, a quella signora di portare via immediatamente il bambino: e Massimo così s’è salvato, stando per tutto il tempo della mia assenza, in casa di una contadina di un paese vicino a quello dove eravamo stati presi.”
La Suora citata era Giuseppina De Muro, insignita dell’onorificenza di “giusta delle nazioni”, che riuscì a nascondere il piccolo nella cesta della biancheria sporca e a farlo uscire dal carcere, storia raccontata ancora oggi a chi visita le Carceri Nuove, mentre la contadina che si occupò di Massimo era Tilde Boggio, anche lei “giusta delle nazioni” e a lei è stata anche intitolata una scuola dell’infanzia a Cuorgné.
Riprendo la lettera di mia mamma: “Questa miracolosa partenza di Massimo fu provvidenziale: infatti una settimana dopo venne il nostro ordine di deportazione ......... Sul treno mi ritrovai con Guido e con mio suocero: erano in uno stato pietoso. Tutti quei giorni erano stati in una piccolissima cella (destinata a due persone), in otto. Guido poi era preoccupatissimo per me e per Massimo. Puoi immaginare con che emozione ci siamo riabbracciati e quanto lui fosse sollevato alla notizia che Massimo era in salvo.
Il convoglio era di 370 uomini, raccolti in rastrellamento dai tedeschi e avviati in Germania come lavoratori, oltre a 15 ebrei, di cui tredici uomini e due donne: io e una vecchia 70enne presa a Torino.
Ci portarono a Bolzano, dove c’era un campo di smistamento. Per compiere quel tragitto impiegammo tre giorni: ogni momento eravamo fermi per qualche bombardamento o perché la ferrovia era interrotta. Per fortuna avevamo almeno il conforto d’essere di nuovo insieme.
A Bolzano ci fermammo un mesetto. Quel campo che allora ci sembrava infame, ora, al confronto di quel che ho passato dopo, mi pare il paradiso. Là almeno, attraverso il filo spinato Guido e io ci vedevamo, e potevamo chiacchierare. Eravamo molto su di morale sia perché eravamo ormai più tranquilli per la sorte di Massimo, sia perché correva voce che la guerra stesse per finire, e ogni giorno credevamo di venir liberati, ed eravamo quasi sicuri che ormai non ci mandassero più in Germania.