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CASTELNUOVO ACCOGLIE LA MIA FAMIGLIA IN FUGA


Intervista a Giorgio Segre
Giorgio Segre
Quando nel 1941 Torino cominciò ad essere bombardata io e la mia famiglia sfollammo a Carmagnola, dove da più di 200 anni vivevano i Clava, famiglia di mia madre. Qui incontrammo i primi “Tzadikim –Giusti”, la famiglia Quaglia, che ci accolse nel suo mulino-segheria rischiando la vita e gli averi e dimostrandoci con le azioni di ogni giorno, che esisteva un mondo diverso, umano, semplice, equilibrato, legato al ciclo della natura e agli affetti sinceri.
Lì trovai un coetaneo, Giuseppe, ultimogenito, che è stato mio compagno di giochi ma, soprattutto, mi ha permesso, in quel periodo così difficile, di non cadere nella disperazione che certamente quella prolungata situazione di confusione e di persecuzione mi avrebbe causato. Ricordo il mulino dove eravamo nascosti; si trovava a pochi metri dal modesto, piccolo e raccolto cimitero ebraico di Carmagnola. Insieme ai due figli del becchino, andavamo sovente a giocare con delle armi ormai inservibili che raccoglievamo da un treno bombardato, in quel piccolo cimitero, dove c’era e c’è ancora la tomba della mia famiglia dentro la quale le nascondevamo.
Con Beppe abbiamo mantenuto un’amicizia che dura tutt’ora e ci vediamo e sentiamo sovente (Il figlio dopo la morte del padre aggiunge questa informazione: "Mio padre, morto il 15 febbraio scorso [2019], è ora sepolto in quel cimitero, in quella stessa tomba e Giuseppe, morto anche lui quest’anno a due mesi di distanza da mio padre, riposa in una tomba che si trova in quello stesso cimitero. Li separa solo il muro che divide la parte cristiana da quella ebraica. Anche la famiglia Quaglia ricevette il riconoscimento di giusti tra le nazioni".). Questo periodo che ci aveva ridato un po’ di pace e serenità fu bruscamente interrotto dalla delazione di un compagno di giochi che denunciò ai fascisti la nostra presenza a Carmagnola; per fortuna nostra, avvertiti in tempo, potemmo andar via. Andar via.... scappammo, di notte, sempre a piedi e in tutta fretta, verso Castelnuovo Don Bosco.
Mio padre e Gino Gilardi si conoscevano perché mio padre era rappresentante di apparecchi cinematografici Zeiss e Gino aiutava il parroco a gestire il cinema della parrocchia. Quando arrivammo a Castelnuovo Don Bosco, sotto il falso nome di Legri, fummo ospitati da un prete, don Turco, con il quale non avevamo rapporti umani, forse anche per il suo terrore per le conseguenze che avrebbe potuto avere. Del prete aveva solo la tonaca, non l’amore per il prossimo, né la fede che si è soliti associare alla “missione” di queste persone. Ci trattava con durezza e un malcelato disprezzo; eravamo relegati in uno stanzino, unica compagnia una gatta che finì sventrata da un cane.
Eravamo dei reietti. La famiglia dispersa tra il Sudamerica e l’Italia (molti di noi emigrarono per l’Argentina nel 38 e di 7 fratelli della famiglia di mio padre ne rimasero in Italia 3 con le rispettive famiglie), i soldi la casa il lavoro perduti, senza amici, privati anche del nome e ricercati, sia dai tedeschi, sia dai fascisti, per essere uccisi. In questo buio e in questa solitudine trovammo a Castelnuovo una famiglia, i Gilardi, che ci accolse, ben sapendo chi eravamo e consapevoli del fatto che, se scoperti, anche loro non avrebbero avuto scampo. Frequentavamo ogni momento possibile del giorno e della sera questa famiglia e partecipavamo alla loro vita quotidiana. Mi ricordo la vecchia nonna, fisicamente malandata che era nipote del Beato Cafasso, mi ricordo i due anziani genitori, coppia patriarcale e base solida della famiglia, e ricordo benissimo Gino il nostro grande amico, uomo intelligente e spiritoso, dal fisico forte e dai tratti del volto segnati, pieno di verve e allegria. Ricordo bene anche Mario, che aveva interrotto gli studi da prete ai Bechi, dai Salesiani, ma aveva dentro lo spirito della vocazione. Mio padre parlava con Gino, io giocavo e facevo il piccolo contadino e mia madre stava con le donne Gilardi. Gino ci portava con sé nei campi a lavorare: nella vigna, a curare le bestie nella stalla, come se questo fosse il nostro mondo da sempre; ci parlava come a dei parenti cari e ci faceva partecipare alla vita della famiglia. Per me, in pochi giorni, diventò il mio mondo ed anche i miei genitori rifiorirono. Ero felice di passare la sera tutti insieme a chiacchierare seduti sul fieno e a giocare con le bestie; di lavorare a sarchiare e zappettare e vendemmiare; di mangiare pane olio e aglio e bere vino, per me diluito; di pulire le botti e così via.
Avevo capito che quella era la “vita” contrapposta alla guerra, ai tedeschi, ai fascisti, a don Turco. Le serate che passavamo nella stalla sono un ricordo bellissimo perché erano riscaldate dalla nostra presa di coscienza che non tutto il mondo era crudele e che potevamo, grazie alla naturale bontà e gentilezza di queste persone, ancora sperare in un futuro.
Tutti nella famiglia avevano nello sguardo quella luce che io ho ritrovato solo negli occhi di Augusto Segre, di Isacco Levi, di Primo Levi. Erano profondamente religiosi, amavano il loro prossimo, rispettavano gli animali, ci trattavano come cari amici tenendo conto delle nostre diverse personalità. Ci facevano sentire parte di un mondo umano, semplice, pervaso da un Essere Superiore, legato alla natura, ad affetti sinceri, come ovvi. Sono convinto che senza l’azione di questa famiglia avremmo fatto una brutta fine: mio padre entro breve perché già in cattiva salute e mia madre ed io chissà come. Stavamo affogando e con grande semplicità loro ci hanno salvati.
In una cascina ad alcuni km da Castelnuovo era nascosta la famiglia dei nostri amici Artom, i genitori di Emanuele, lei direttrice della scuola ebraica, Emanuele geniale scrittore e studioso morto per mano nazista giovanissimo. Un giorno andammo a trovarli e, mentre i grandi chiacchieravano, io giocavo sul prato. Vidi arrivare dal cielo due aeroplani, che mi sembrarono completamente silenziosi, e che lanciarono delle bombe nei pressi di Chieri, distante alcuni chilometri. Al momento mi spaventai molto e corsi dentro vicino ai miei genitori. Da allora ho sempre avuto un particolare rapporto di paura e attrazione con i voli di uccelli come le aquile in montagna.
Molti anni dopo andai in analisi, e scoprii che una delle cause principali dei miei disturbi era quel profondo terrore che avevo provato durante quel bombardamento e che avevo poi completamente rimosso. Me ne liberai solo 30 anni dopo riportandolo alla coscienza.

Alla fine del ’43 iniziò nell’Astigiano un grande rastrellamento di partigiani ed ebrei da parte di fascisti e tedeschi di stanza a Chieri; alla vista delle camionette che scendevano dalla collina di Moriondo, Don Turco ci disse che non ci avrebbe ospitato nella canonica un minuto di più e ci sbattè fuori senza esitazione, su due piedi. Il paese era deserto, così, facilmente dalla prima di quelle camionette i tedeschi videro queste tre persone distanti, e ci spararono addosso alcuni colpi di Mauser. Noi continuammo a scappare fino all’esaurimento delle forze e non fummo ulteriormente inseguiti. Quando ci fermammo mi accorsi che sanguinavo dalla coscia sinistra perché ferito di striscio. La paura, la corsa e il cuore “a mille” avevano fatto da anestetico. La cicatrice non è mai sparita né dal mio corpo né dal mio animo.
Il legame profondo tra i Gilardi e noi si è mantenuto nel tempo, testimone di una condivisione di umanità che prescindeva da differenze di cultura e religione.
In quel periodo ci tormentavano la paura del pericolo fisico, dei tedeschi e della morte, l’ansia per il futuro, il senso di isolamento e di sperdimento e questa famiglia ci mostrava ogni giorno un’umanità diversa. Questo aggiunge uno straordinario valore all’averci materialmente ospitati nel momento del pericolo, mettendo in gioco la loro vita. E’ per questo che considero nostri salvatori tutti i membri di questa famiglia. A loro è per sempre dovuta la riconoscenza mia, della mia famiglia, delle mie figlie e dei miei nipoti.
Sono grato a Yad Vashem per questo progetto e quest’iniziativa, alla mia Comunità ebraica di Torino che ha organizzato questo avvenimento perché ne resti memoria in onore dei Gilardi e di Castelnuovo.

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