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ESTRATTO DELLA MEMORIA DI RICCARDO LEVI


Ricordo di Riccardo Levi sulle leggi razziali e le persecuzioni
Levi, Virginia Montel Levi, Tullio Levi, Riccardo Levi, Marco Levi
Torino
  Maggio 2013
Mi chiamo Riccardo Levi e sono nato a Torino 1l 1° marzo 1937…. La mia famiglia era abbastanza osservante: papà Marco recitava le preghiere quotidiane, osservavamo tutte le solennità con accensione della lampada, Kiddush, Avdalah, ecc. non abbiamo mai mangiato carne di animali taref, ma non andavamo dal macellaio kasher perché a Torino la carne kasher era riservata a poche famiglie di vip e noi non eravamo di quella categoria; non avevamo la separazione delle stoviglie tra carne e latte. …
Le leggi razziali ebbero sulla mia famiglia un effetto devastante: furono la ricompensa e la gratitudine della Patria nei confronti di chi le aveva sacrificato metà della propria famiglia. Come ho già detto metà della famiglia di papà era morta in trincea per difendere questa Patria. Per i nonni, per papà, per zia Sara era inimmaginabile, un’irrisione, un tradimento, un affronto vigliacco come le leggi razziali. I nonni erano sinceramente monarchici, e quel re, meschino e pusillanime, che avallava e promulgava le leggi razziali scombussolava tutti i loro ideali e convinzioni.
…alternammo periodi di permanenza a Torre con periodi a Torino. In quel periodo conoscemmo una famiglia di contadini che nel seguito di questo racconto avrà un ruolo da protagonista: gli Antoniono. La famiglia era composta dai genitori Pietro e Maria e da due figli: Carlo nato nel 1926 e Gina nel 1928 o 29. Se siamo sopravvissuti lo dobbiamo alla loro generosità (non erano certo agiati) e al loro coraggio (diciamo pure temerarietà). Riflettendo da adulto su quegli anni, penso che la scossa delle leggi razziali abbia aperto gli occhi a papà, l’abbia disincantato e gli abbia dato la lungimiranza e la fredda obiettività nelle decisioni, che probabilmente sono state determinanti per la nostra salvezza. I miei erano di tradizioni e idee mazziniane, non furono mai indulgenti nei confronti del fascismo; ossia lo consideravano per quello che era: una dittatura prepotente e spietata, un pesante giogo che aveva soppresso ogni libertà. Non si fecero illusioni neppure nei primi anni trenta quando il fascismo era sulla cresta dell’onda e non appariva ancora nessun sentore di antisemitismo.
Ci trasferimmo definitivamente a Torre. …
Stavano via-via sfollando a Torre nostri parenti, parenti di parenti, conoscenti; arrivammo ad essere una trentina di ebrei, che sulla popolazione di Torre voleva dire il 10 o il 15%; ma fino all’armistizio non si correvano eccessivi pericoli. Eravamo tutte persone a modo e riuscimmo ad instaurare ottimi rapporti con i locali, che quando fu necessario ci aiutarono, ci nascosero e ci protessero. Va detto, ad imperitura riconoscenza per quella gente, che ci salvammo tutti! Cito qualche nome delle persone più note: l’avv. Moise Foa (Moisino), segretario capo della Comunità di Torino; il rabbino Aldo Luzzatto, che non era ancora rabbino ma studente liceale; Alba Luzzatto, la futura suocera di David Sorani che era una giovane e bella ragazza; Lia Montel, adesso Tagliacozzo. Casa nostra era l’unica di proprietà, la più grande e accogliente; tutti gli altri abitavano in case d’affitto, sovente disagevoli e piene dei mobili accatastati che si erano portati dalle città per sottrarli ai bombardamenti e ai ladri. La nostra casa era quindi il fulcro della piccola Comunità: vi funzionava anche il Beth a Kenesset, si diceva Teffilah di Shabbath e di Yom-Tov; i Hazanim non mancavano. Moisino s’era improvvisato shochet; in seguito alla distruzione della sinagoga di Torino e del sottostante impianto di produzione delle azzime, papà fece costruire da Carlo Antoniono l’attrezzatura per fare le matzoth. Nel 1943 facemmo le matzoth per tutti e nel 44 e 45 solo per noi e per una o due famiglie. …
A dicembre il maresciallo dei carabinieri di Agliè venne a dire a papà che aveva ricevuto l’ordine di arrestarci e che sarebbe venuto a prenderci il giorno successivo: tutti gli ebrei si volatilizzarono nel giro di alcune ore. …
In canonica c’era una stufa a legna molto piccola e papà si fece portare la nostra: fu un errore, perché una donna se ne accorse, seguì da lontano il carro che la trasportava, individuò il nostro nascondiglio e ci vendette. Le delazioni venivano pagate 5.000 lire, che era una cifra considerevole. Il parroco di Torre, don Leone, (non abbiamo mai saputo come e da chi), fu informato; inforcò la bicicletta si precipitò da noi; riuscì ad arrivare prima dei repubblichini, ci disse “fuggite!” e noi fuggimmo. Eravamo lì da pochi giorni, non eravamo mai usciti, non avevamo incontrato nessuno e nessuno ci aveva visti; quando vennero a cercarci don Vincenti ebbe buon gioco nel cadere dalle nuvole: disse che non ci aveva mai visti e conosciuti e che non aveva la più pallida idea di chi fossimo. Fu evidentemente convincente perché quelli se andarono con le pive nel sacco. Fortunatamente non entrarono in canonica, perché data la nostra fuga precipitosa avrebbero certamente trovato molte tracce. Noi intanto eravamo andati a Borgiallo, vicino a Forno Canavese; ci rivolgemmo al panettiere che papà conosceva, gli era stato presentato da un partigiano di Torre di nome o soprannome Carnera. Ci nascose in solaio dove aveva immagazzinato le mele. Era uno stanzone gelido, dormivamo vestiti su materassi che erano sacchi pieni di brattee del granturco con una feritoia sul fianco per infilarci le braccia e sprimacciarle, andavamo a mangiare in cucina con la famiglia del panettiere. Lì eravamo al fronte: era un continuo via vai di bande armate e c’erano frequenti sparatorie. Un mattino ero andato nel locale dove impastavano per scaldarmi un poco, quando entrò in paese una camionetta carica di repubblichini; mi accorsi che il panettiere e i suoi lavoranti avevano smesso ciò che stavano facendo ed erano tutti armati. Non ci fu scontro, ma quel posto era estremamente pericoloso. …
Vennero in nostro soccorso Pietro e Carlo: in una gelida notte vennero con 4 biciclette, due per loro e due per papà e mamma, caricarono noi bambini sulla canna, pesanti zaini sulla schiena e partimmo. Andammo per sentieri nascosti attraverso campi e vigne, evitando il più possibile le strade e tenendoci lontani dalle case per evitare che i cani abbaiassero. Io piangevo con il rischio di farmi sentire: avevo freddo e paura. Per la prima volta realizzavo che i miei genitori, che un bimbo di quell’età considera onnipotenti, erano vulnerabilissimi e non sarebbero stati in grado di darmi alcun aiuto e protezione. Eravamo diretti ad una baita vicino a Muriaglio che apparteneva a contadini conoscenti degli Antoniono con cui avevano preso accordi. …
C’erano frequenti rastrellamenti: vicino a noi c’era una pietraia dove avevamo scoperto un buco e durante i rastrellamenti papà e mamma andavano a nascondersi là dentro. Stavano lì intere giornate; ritornavano alla baita, dove noi li attendevamo, quando faceva buio. Se fosse passato qualcuno avremmo dovuto dire che eravamo nipoti dei padroni; fortunatamente non venne mai nessuno: non credo sarebbe stato difficile farci cadere in contraddizione, farci scoppiare in pianto e farci dire ciò che non dovevamo. …
Nei dintorni c’erano nascosti altri ebrei: Aldo Luzzatto con i genitori; un medico di Biella di cognome Morello con la moglie cattolica e due figli poco più grandi di noi. Era un bravo medico che, nella pressoché assoluta irreperibilità di medicine, riusciva a curarci efficacemente con poco e niente: rimedi naturali e qualche intruglio che preparava lui stesso.
Conoscemmo anche due militari inglesi dispersi; vivevano in condizioni ben peggiori delle nostre, in una baita diroccata completamente ricoperta di rovi. Una sera vennero a cena da noi, mi chiamavano Chatterbox; cercavano di mettersi in contatto con il loro Comando ed è probabile ci siano riusciti perché a un certo momento sparirono. Forse non erano dispersi, ma erano lì per qualche motivo.
Papà aveva un Siddur che nascondeva in un buco nel fieno e diceva le preghiere due volte al giorno. Facemmo anche i Sedarim alla luce della lampada ad acetilene con le azzime fatte in casa. La famiglia Luzzatto veniva frequentemente da noi per le preghiere del venerdì sera. …

Con la famiglia Antoniono mantenemmo rapporti di stretta amicizia; Gina per mia mamma, fu come una figlia. Delle persone di allora non c’è più nessuno; ci sono due figli di Carlo: Alberto e Marina, ormai ultracinquantenni. Pietro, Maria e Carlo furono insigniti tra i Giusti delle Nazioni a Yad-Vashem. Purtroppo morirono prima di ricevere l’attestato. La cerimonia con l’ambasciatore israeliano a Roma fu programmata due volte e sempre rinviata a causa delle condizioni di salute di Carlo.
In tempi recenti (21 maggio 2009) ho saputo dallo stesso Carlo che il Comando Partigiano era al corrente della nostra esistenza e che Carlo si occupava di noi; nel distribuire gli incarichi e nel programmare le missioni il Comando teneva in considerazione il fatto che Carlo aveva già un impegno.
Una trentina d’anni dopo quegli avvenimenti conoscemmo il nome della persona che ci aveva venduto: Palmina Bertetti. Era una donna che all’epoca aveva costumi piuttosto disinvolti e si accompagnava con chi di volta in volta si trovava in paese indifferentemente fossero nazisti, partigiani o fascisti; non aveva pregiudizi. Quando conoscemmo queste cose, i miei genitori si erano nel frattempo ritirati in pensione a Torre e con quella donna avevano rapporti non di amicizia ma di buon vicinato. Qui sta forse la spiegazione delle precauzioni maniacali che adottava Giuseppa quando ci veniva a trovare in canonica: essa aveva dei sospetti su questa vicina.

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