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ALBERTA LEVI LETTA DA ALICE [ALISA?] BESSO


Il diario di Alberta Levi è letto dalla bisnipote Alisa Besso, figlia di Gaia Piperno, figlia di Daniela Temin, figlia di Alberta.
Alberta Levi Temin
Ricordo quella cena, quell’ultima cena! Zia Alba, che di solito era abbastanza pessimista per la situazione, era tutta animata e bendisposta alla speranza. Era stata nel pomeriggio da una sua amica, la Sig.ra Teresa Puccini, a farle gli auguri per l’onomastico, e ad offrire nascondiglio diurno in casa sua al figlio maggiore, ufficiale che l’8 settembre aveva lasciato la divisa. La preoccupazione di nascondersi era riservata al giorno, tanto la notte c’era il coprifuoco e nessuno girava.
Annoto queste cose per dare un quadro delle illusioni che molti si facevano ancora il 15 ottobre 1943. La paura ebraica era per gli uomini, e così lo zio Mario al mattino, subito dopo il coprifuoco, usciva di casa e girovagava il più a lungo possibile, tanto sarebbe stata questione di poco. Perché gli alleati sarebbero arri- vati presto.
Alle sei del mattino le SS suonarono alla porta: lo compresi dalla scampanellata fuori orario che mi svegliò di soprassalto, e, senza un attimo di esitazione, scesi dal letto sussurrando a mia madre e a Piera “non posso sentire ancora quel passo” e uscii sul balcone. Quel passo di aguzzino che aveva profanato la nostra casa di Ferrara decise in quel momento la mia vita. In camicia da notte uscii sul balcone e mi appiattii contro il muro, con l’orecchio alla fessura della porta finestra per udire quanto avveniva dentro. Ma che avveniva? Una voce dura diceva “Komen Komen!” e poi subito la finestra alle mie spalle venne chiusa dal di dentro: mia madre voleva salvare almeno me. Il balcone su cui mi trovavo era lungo e aveva due accessi: l’uno quello da cui ero uscita, ed un altro dalla cucina, che, essendo notte, era chiuso. Attesi ancora, quanto non so, forse qualche istante; poi, per la porta della cucina (seppi in seguito che me l’aveva aperta mio cugino intuendo il mio nascondiglio) rientrai nella casa vuota e in un disordine indescrivibile. Era passato un quarto d’ora, il più lungo della mia vita e di cui più passa il tempo più me ne vergogno. Corsi alla porta: era sprangata e apribile solo con chiavi. Ero ancora in camicia, dovevo vestirmi. Fra i miei indumenti appoggiati la sera prima su una seggiola, trovai le chiavi di casa. Zia Alba, in quel drammatico quarto d’ora, aveva avuto il tempo di pensare anche a questo, e la mamma aveva nascosto sotto la mia gonna la sua borsetta con il denaro e i gioielli che ci eravamo portati da Ferrara. Quando mi chiusi la porta alle spalle, sul pianerottolo si aprì la porta dell’appartamento di fronte. I baroni S., svegliati dal rumore, avevano osservato impotenti la deportazione dal buco della serratura, e quando videro me, sola, spalancarono la porta per porgermi aiuto. Chiesi solo di poter telefonare a mio padre e gli dissi di uscire immediatamente di casa che lo avrei raggiunto. Sotto la porta della pensione mio padre non c’era. Salii e dalla Sig.ra Mortara seppi che era uscito, era andato a via De Pretis, da quell’amico. Ripresi la strada, ma a piedi questa volta, per andare a via De Pretis, senza sapere il numero civico, senza potermi ricordare il nome dell’amico di mio padre. Arrivata finalmente in via De Pretis, mi trovai davanti mio padre la tremenda verità venne fuori e, dicendola, si faceva realtà nella mia mente: “Siamo soli, tu e io”. In casa degli ottimi amici Di Santolo raccontai quel che sapevo.
Noi bisognava che ancora una volta prendessimo delle decisioni. Non potevamo rimanere in casa di amici, mettendo a repentaglio la loro vita. I Di Santolo non vollero ascoltare ragioni: si sarebbe studiato cosa si poteva fare domani, intanto ci mostrarono una scaletta che portava in soffitta.
Un quarto d’ora dopo il coprifuoco il campanello trillò. Ci guardammo tutti in faccia sbigottiti; in silenzio ci nascondemmo come convenuto sento ancora la voce della Signora Di Santolo: “Uh! La Piera!” Piera e mia madre erano alla porta. Ci ritrovammo tutti quattro stretti in un abbraccio spasmodico. Tutti e quattro non credevamo alla realtà, perché anche loro non potevano immaginare di trovarci lì.
Nella caserma dove erano stati portati c’era stato uno smistamento. Dato che le S.S. che erano entrate nelle case e avevano portato fuori tutti gli occupanti senza chiedere le generalità perciò a una certa ora nel salone dove erano tutti riuniti venne chiesto a tutti i cattolici che si trovassero presenti di passare in un’altra stanza, zia Alba indusse mia madre e Piera ad unirsi al gruppo, ma quando la medesima voce avvertì che per ogni ebreo che avesse tentato di passare dieci altri ebrei sarebbero stati uccisi subito, tornarono indietro. Mia madre si accontentò di scrivere un saluto per me: lo consegnò a una signora cattolica e mi fu recapitato il giorno dopo.
Zia Alba non si dette pace: “nessuno vi conosce, hai avuto la possibilità di salvare tua figlia e non lo hai fatto. Chi può dire chi siete o non siete?” Dopo un po’ ancora un appello”. Tutti i cattolici di matrimonio misto passino in quella stanza” con il solito ammonimento. Ma questa volta, per merito della Zia Alba, si decisero.
Bisognava sottostare ad una specie di interrogatorio. Attendendo il loro turno prepararono le risposte e Piera fece a pezzi le loro carte d’identità e le mangiò. Dissero di essere bolognesi, di aver perduto tutto in quel bombardamento, mia madre asserì di essere cattolica lei e la figlia; del marito ebreo non aveva notizie dal bombardamento; si era rifugiata a Roma in casa del fratello del marito, a Roma, perciò si trovava lì. Stremate dall’emozione, si trovarono fuori senza sapere dove dirigersi; non certo a via Flaminia e poco dopo ci sarebbe stato il coprifuoco. Piera pensò alla signora Di Santolo. L’aveva conosciuta il giorno prima ed era stata tanto gentile; le avrebbe aiutate.
Ad un prete di passaggio chiesero come arrivare e presero l’ultimo tram in circolazione. Mai avrebbero sperato di trovare lì anche papà e me.

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