Testimonianza di Piero Terracina rilasciata espressamente per l’edizione del 2013 di Memorie di famiglia
Piero Terracina,
Fabio Terracina
Roma
Fummo arrestati tutti della mia famiglia la sera del 7 aprile 1944, che ci trovò casualmente tutti riuniti perché avevamo deciso di trascorrere insieme la prima sera della Pasqua ebraica, da un commando di 7 persone -5 SS e due fascisti -uno dei quali era il delatore (lo riconobbe mia sorella) tutti armati come per un’azione di guerra che venivano ad arrestare la più pacifica delle famiglie,tra cui il nonno che aveva 84 anni ed il ragazzo di 15 anni che ero io, ultimo della famiglia. Al portone attendeva un’autoambulanza sulla quale fummo fatti salire e dopo pochi minuti eravamo nel carcere di Regina Coeli. Entrare in un carcere con la coscienza di non aver commesso nessun reato provoca sgomento, angoscia, dolore. Nel carcere fummo messi faccia al muro, tutti in piedi, compreso nonno, in attesa di essere registrati, per un tempo che ci sembrò interminabile con l’obbligo di non parlare. Ma mio padre, che aveva intuito che stavamo precipitando in un abisso senza fine, approfittando di un momento in cui la sentinella si era allontanata, sentì il bisogno di rivolgerci qualche parola: ci chiese perdono, non so cosa volessero intendere e non glielo ho mai chiesto, e aggiunse: “possono accadere cose terribili, mi raccomando, qualsiasi cosa accada non perdete mai la dignità. Siate uomini.” Ma come si fa a mantenere la dignità quando si ha fame, quando implori con occhi supplichevoli l’aguzzino che ti sta versando la brodaglia nella speranza, vana, che affondi un poco di più il mestolo per ricavarne qualcosa di più solido. Ma dov’è più la dignità! C’era chi manteneva la dignità. Erano coloro che si ribellava no: accadeva ogni tanto, ma andavano incontro alla punizione che si concludeva con la morte. Ma io avevo 15 anni e non volevo morire!
Poi il trasferimento nel campo di transito di Fossoli e da lì su carri merci chiusi dall’esterno, in 64 persone nel vagone senza lo spazio sufficiente, con la sete atroce che faceva perdere la ragione, con il pianto incessante dei bambini, le invocazioni di tutti che ogni volta che il treno si fermava imploravano che ci venisse data un po’ d’acqua soprattutto per alleviare le sofferenze dei piccoli, con i lamenti dei malati, in mezzo alle nostre lordure, l’arrivo ad Auschwitz dove giungemmo dopo 7 giorni. Una sofferenza indicibile. Quando la sofferenza supera certi limiti si dice “è un calvario”. Ma forse bisognerebbe trovare una nuova parola perindicare una sofferenza maggiore. Non credo che possa esserci sofferenza più grande di quella di un padre, di una madre che, oltre alle proprie sofferenze, non potevano fare niente per alleviare quelle dei loro piccoli.
Quando aprirono i carri le SS eranotutte schierate con un bastone in mano ed un cane al guinzaglio. In una confusione indescrivibile colpivano tutti coloro che si attardavano alla ricerca dei loro cari che avevano viaggiato su altri vagoni, con l’abbaiare dei cani che venivano aizzati contro i prigionieri. Fu in mezzo a quell’inferno che con i miei fratelli trovammo mia madre e mia sorella. Mamma aveva capito tutto, aveva il volto bagnato alle lacrime. Ancora sento il mio volto che si bagna delle sue lacrime. Ci abbracciò e disse:“è finita, non vi vedrò più”. E così è stato. La sera stessa dei miei genitori e di nonno non era rimasta che cenere insieme a quella di altre migliaia di esseri umani. E successivamente furono assassinati anche i miei fratelli, mia sorella e lo zio. Ma la loro presenza non mi ha mai abbandonato, è sempre con me, dentro di me.
Non racconterò i particolari di Auschwitz anche perché alcuni accadimenti si collocano oltre il comprensibile ed allora è bene porsi dei limiti. Mi limiterò a spiegarlo con la quotidianità, mal’orrore era una costante. In quel triste recinto tutto era violenza, abbrutimento, morte; dove il prigioniero veniva sradicato dal mondo e proiettato in un luogo ostile dove tutto era finalizzato al loro sterminio, ma anche alla loro tortura, alla loro umiliazione, alla loro disumanizzazione. Dove le fiamme di quegli orrendi camini dei forni crematori si alzavano alte, si scontravano, ricadevano in miriadi di scintille che si spegnevano come tante stelle cadenti. Ma quelle scintille erano i nostri cari, era il popolo ebraico che bruciava. Dove il prigioniero veniva privato di ogni diritto: non poteva avere una famiglia, non poteva avere ricordi –anche il ricordo dei propri cari che erano stati assassinati si affievoliva per la necessità per sopravvivere di pensare solo al momento che si stava vivendo –equesto pensiero ancora mi angoscia, non sono mai riuscito a perdonarmi. Il prigioniero ridotto in stato di schiavitù non poteva protestare, non aveva più il nome –l’identità era quella del numero che ci era stato tatuato sull’avambraccio sinistro. Marchiati come bestie. Venivamo contati all’appello e indicati come “Stucke” ovvero pezzi, non uomini o prigionieri. Eravamo alla mercé non solo degli aguzzini SS ma anche dei famigerati kapòs, prigionieri anch’essi, molti erano ergastolani, assassini di professione deputati al mantenimento dell’ordine e della disciplina nel lager, nelle baracche e sul posto di lavoro. Erano feroci ed avevano potere di vita o di morte nei confronti dei loro sottoposti. Ai prigionieri erano stati tolti anche i peli ed i capelli. Non potevano avere speranza ed infine veniva loro tolto il diritto alla vita. Avevamo perso l’umanità eppure qualcuno, pochi, molto pochi, è riuscito a sopravvivere e a riacquistarla. Poi, una volta tornati,per poter sopravvivere alla sopravvivenza abbiamo dovuto fingere una normalità che non c’era e non poteva esserci.