Shlomo Venezia
Atene,
Salonicco
Da Atene il treno doveva passare per Salonicco, lo snodo ferroviario principale per uscire dalla Grecia, e si fermò un po’ prima della stazione per il rifornimento di carbone e acqua. Mi avvicinai al finestrino e guardai se, per caso, non passava qualcuno che conoscevo. I soldati tedeschi erano appostati lungo il treno ogni dieci metri. Il caso volle che il ferroviere di controllo alle rotaie fosse Gyorgos Kaloudis, un ragazzo di cinque o sei anni più vecchio di me che, quando eravamo bambini, abitava vicino a casa mia. Suo padre, un pezzo grosso comunista che lavorava alle ferrovie, era stato arrestato dai tedeschi subito dopo il loro ingresso a Salonicco e Gyorgos aveva preso il suo posto alle ferrovie: si assicurava che i freni non bloccassero le ruote e,nel caso, le riaggiustava con un lungo martello. Quando mi vide sembrò molto sorpreso; si avvicinò con discrezione, facendo finta di lavorare alle ruote del mio vagone e senza farsi notare da tedeschi mi disse in greco: “Come, anche voi qui? Cercate di scappare a tutti i costi, perché, dove vi portano, ammazzano tutti”. Poi aggiunse che stavamo andando in Polonia. Non ebbi la possibilità di fargli altre domande; i tedeschi ci sorvegliavano. Quando il treno ripartì, raccontai a mio fratello e ai miei cuginiquello che mi aveva detto Gyorgos.
Ci avevano messo due giorni per andare da Atene a Salonicco, e sarebbero passati altri due gironi prima di lasciare il territorio greco. Fino ad allora avevamo stupidamente creduto che i resistenti greci avrebbero attaccato il treno in aperta campagna per liberarci e impedire la nostra deportazione, come ci avevano promesso di fare. Solo il commento di Gyorgos mi fece capire che non serviva a niente aspettare; bisognava provare a fuggire da soli. Questo, però, avrebbe voluto dire lasciarci alle spalle la famiglia ... Finché eravamo in territorio greco, l’evasione era meno rischiosa; non avremmo incontrato troppe difficoltà a trovare rifugio presso contadini che ci avrebbero aiutato come resistenti, senza sapere che eravamo ebrei.
In territorio jugoslavo le cose sarebbero diventate più difficili, e così decidemmo di tentare la fuga la sera stessa.
Eravamo abbastanza magri da passare per il finestrino e lasciarci cadere lungo il treno in corsa. Era rischioso, perché i tedeschi occupavano un vagone ogni tre e montavano la guardia nelle torrette di alcuni di questi, ma eravamo decisi. Mio fratello doveva saltare per primo, io subito dopo. Poi avremmo dovuto camminare nella direzione di marcia del treno per raggiungere i miei cugini, che sarebbero saltati dopo di noi. Mio fratello non fece in tempo a mettere la gamba fuori dal finestrino che l’intero vagone si svegliò e cominciarono le urla, i pianti. Tutti erano certi che saremmo morti e che sarebbero stati uccisi anche loro per averci lasciato fuggire. Il padre di Dario, Milton, ripeteva senza sosta: “Sanno quanti siamo; quando il treno arriverà a destinazione e si renderanno conto che voi mancate, ci uccideranno tutti”. Non sarebbe cambiato nulla: sono morti tutti comunque. Ma chipoteva saperlo? Vedendoli piangere, vedendo mia madre e le mie sorelle terrorizzate e sconvolte, ci convincemmo che non era giusto lasciarle sole per cercare di salvarci. Se non se ne fossero accorti, saremmo probabilmente riusciti a scappare e a salvarci. Ci provammo di nuovo il giorno dopo. Ma Milton non dormiva ... ci sorvegliava per impedirci di fuggire.
Abbandonato il territorio greco, attraversammo la Jugoslavia e una volta arrivati in Austria, quando a Vienna venne messo il filo spinato ai finestrini,perdemmo definitivamente ogni speranza di libertà.