Enrica Vivanti Belleli,
Gloria Pilastro
Corfù,
Trieste
I miei nonni sono nati tutti a Corfù. E la mia mamma e il mio papà son venuti che avevano nove mesi. Però sono venuti talmente piccoli che avevano mantenuto le tradizioni e basta. Quelle sì, erano molto tradizionalisti. Pensa, a Corfù c’erano quattro sinagoghe. Adesso non si sono più ebrei, li hanno presi tutti in una notte, tutti, anche i malati. Li hanno radunati nella piazza prospiciente il mare, poi li hanno fatti salire su delle zattere, arrivare fino alla stazione dei treni per poi arrivare ad Auschwitz. Pulizia totale, è un brutto mondo. Sai, a una certa età, come ce l’ho io, fa tanto male [vedere] che il nostro sacrificio, le nostre sofferenze non siano servite. Non è che ti lasci bene. –In che anno è nata? Io sono del ‘36. La Guerra io l’ho passatain pieno. Ho seguito la Shoah, io sono una creatura della Shoah, perché dall’inizio la scuola mi è stata tolta. E io non capivo perché, ero piccola ed è una cosa che un bambino difficilmente riesce ad accettare, senza rendersi conto del motivo. Quando sono andata a scuola, la maestra aveva detto ai miei genitori “che brava, ha imparato subito a leggere”. E quando mi hanno tirato via dalla scuola io piangevo, sai come piangevo, non capivo il perché. Per strada, però, tutti i manifesti io li leggevo, bastavasaper leggere. Non ricordo le leggi razziali, non seguivo perché allora ero troppo piccola; però ricordo che il mio papà me le raccontava. Ricordo che era ad ascoltare nel ’38 la promulgazione delle leggi razziali fatta da Mussolini, in piazza Unità. E mio papà era lì... e non dimentico mai che ha detto a casa “Dovevate vedere la moltitudine di gente tutti d’accordo. E tanti, tanti, tutti d’accordo. Abbiamo finito di vivere”. Ed era vero. Io non posso dimenticare sai, non riesco. Anzi, più il tempo passa... era così ingiusto, [eravamo] dei bambini... Quando, poi, siamo entrati in guerra, abbiamo vissuto un percorso tragico, perché scappavamo continuamente per cercare rifugio: siamo andati fuori, a Venezia, in Veneto, non mi ricordo bene. Ma era uguale anche lì. Poi siamo ritornati gli ultimi due anni. Non potevamo neanche andare nei rifugi [antiaerei], papà non voleva perché vi andavano i tedeschi, chiedevano le carte e quando trovavano ebrei li portavano via. Piuttosto le bombe che farci prendere dai tedeschi. Ricordo che giravamo per la città, perché non c’era lavoro e ogni tanto giravamo e si mangiava in trattoria. Ricordo che ero fuori che giocavo con mio fratello e passa un tedesco e mi dice “Schöne Kinder, schöne Kinder”. Avevo le treccione nere, grandi, brune, belle. E mio papà è uscito fuori, povero, di scatto. Non so cosa gli ha detto in tedesco e mi ha portata via. Si viveva con l’ansia, con l’angoscia... Ricordo che mio papà, prima che ci rifugiassimo, camminava per strada... C’era un ebreo che faceva la spia, conosceva un po’ tutti, specialmente in città vecchia.601 E se lui si fermava e per salutarti ti appoggiava la mano sulla spalla, dietro c’era il fascista che ti prendeva via. Ed era un ebreo, purtroppo, un delatore che non si capisce e non si è mai capito perché lo avesse fatto. Ricordo il papà mio che camminava con la testa bassa, il terrore di incrociare questa persona che ha fatto la delazione a tanti. Terribile, una cosa disumana. Non ti puoi nemmeno dare pace, perché pensi “perché, perché, perché”. È quello che dice la senatrice Liliana Segre “non tanto la crudeltà, quanto l’indifferenza dei tanti”, che se ne fregavano. Ho dei ricordi penosi, lontani, della morte delle mie nonne che erano state messe per comodità nostra, per fuggire, nella casa di riposo da dove nel ‘44, una notte di gennaio credo, sono state deportate. Che è una cosa... non accetto niente di questo, ma il ricordo di questi vecchi portati via dai letti... Non mi rendo conto, perché, io dico, fin che avete intenzione di uccidere dei giovani che potrebbero procreare altri ebrei... ma i vecchi, ammalati, lo scopo... non riesco a darmi pace. –Come siete riusciti a salvarvi? Papà era molto conosciuto, aveva due negozi di rigattiere. Nel ‘38 hanno portato via uno e poi anche l’altro. Abbiamo girato, girato per chiedere ospitalità: prima siamo usciti, siamo andati verso Venezia, e poi siamo ritornati e papà cercava gente che ci potesse ospitare. Non era facile, anche a pagamento sempre. E non trovavi, perché la gente aveva anche molta paura. Ricordo che abbiamo tanto girato, per tutta Trieste. E finalmente, verso gli ultimi due anni, ha trovato un falegname, sempre per soldi, il quale ha detto “se volete, se vi accontentate c’è questo sopralzo”. In alto, si andava con una scala a pioli, dove su c’era una stanza, due letti, un angolino tipo cucina dove la mamma faceva qualcosa [da mangiare]. Dal ’43 al ’45 circa. E noi bambini piccoli che non dovevamo fare confusione, perché il tipo che ci ospitava oltretutto era un tizio odioso, antipatico, era un vecchio. Noi dovevamo stare attenti a non fare confusione, a fare dei giochi silenziosi. Ogni tanto uscivamo perché, povero papà, ci portava fuori a prendere un po’ di aria, e dopo rientrare. Ma non siamo mai andati fino al mare fino alla fine della Guerra. C’erano i tedeschi dappertutto. Ed è stato un periodo terribile. Infatti, dopo erano tutti ammalati, per questa reclusione, mancanza d’aria e mancanza di mangiare; papà cercava qualcosa, ma era difficile trovare durante la guerra. Poi è finita la guerra, perfortuna. Ricordo la fine della Guerra, ricordo i partigiani che scendevano da via Rossetti, giù. E noi per la prima volta siamo usciti, all’aperto, e abbiamo capito cos’era la Libertà. Non tutti sanno cosa vuol dire. Ricordo mio papà che dice “Uscite! Uscite correte all’aria aperta!” [...]. Io li ho visti i partigiani, che poi [la situazione] sia cambiata e si sia evoluta... Io in quel momento, una bambina, ho visto loro e per noi loro erano la Libertà.