Dal Diario di Amalia Navarro (dattiloscritto, 20 settembre 1947) e successivamente pubblicato nel 2021
Amalia Navarro
Venezia
20 Settembre 1947
Dopo l’8 settembre
In tutte le città d’Italia, dopo l’8 settembre, gli ebrei vivevano tranquilli, con un’incoscienza incredibile, poiché il reclutamento forzato dei giovani per il servizio del lavoro era già stato iniziato dei fascisti e sui giornali si inaspriva sempre più la campagna diffamatoria contro di essi, definiti nemici della patria e causa della guerra come di ogni altro flagello dell’umanità. Pochi prudenti, ritenuti eccessivamente pessimisti dai correligionari, avevano abbandonato le loro case, cercando altrove rifugio: Essi avevano prestato orecchio alle voci allarmistiche che circolavano in sordina circa l’intenzione dei tedeschi di rinchiudere gli ebrei in campi di concentramento ed impadronirsi dei loro averi ma in complesso gli ebrei italiani non prestavano fede ai suggerimenti di prudenti esperti in materia di persecuzioni tedesche; ritenendo che in Italia non si sarebbe mai arrivati all’estremo e conseguenze, e che, solo per dare polvere negli occhi ai tedeschi, si sprecava tanta carta e tanta malvagità letteraria contro di essi.
A Venezia, più che altrove si viveva tranquilli: posso ben dirlo io, che ci vivevo con la mia mamma mia sorella e mio fratello e attendevo le mie faccende ignara della sorte che mi attendeva. Una sera un nostro amico arrivato da Padova porta la notizia che si diffuse in un momento per tutta la città che l’azione di Padova sostava un treno, carico di ebrei romani, razziato dai tedeschi nella capitale la tragica notte del 16 ottobre 1943. (…) Da quel giorno cominciamo a vivere tutti in un’ansia indescrivibile, progettando di allontanarci da Venezia dove eravamo ben conosciuti; ma, lontano dalla nostra città non avremmo avuto i mezzi di sussistenza, perché mio fratello, che era l’unico nostro sostegno col suo lavoro presso l’”Utet”, avrebbe dovuto rimanere disoccupato.
Il 28 ottobre venne un agente della questura ad avvisarci di scappare perché ai Commissariati prevedevano che nella nottata i fascisti avrebbero fatto qualche rappresaglia contro gli ebrei. Non sapevamo dove andare: gli alberghi erano diffidati dall’ospitarci e se ci fossimo presentati in qualche albergo fuori di Venezia con i nostri documenti, nessun albergatore avrebbe accettato di darci ricetto. Le ore passavano e non riuscivamo a progettare nulla. Finalmente decidemmo di andare a Bagheria, nella villa di una mia cugina sfollati in seguito un bombardamento. Partì con tutta la mia famiglia e si unì a noi una zia con i figli. Per quattro giorni vivemmo rinchiusi in casa, per paura che qualcuno ci riconoscesse; ignorando se a Venezia nel frattempo fosse avvenuto qualche fatto nuovo. Il quarto giorno decisi di andare io a vedere: trovai che tutto era calmo i fascisti non avevano fatto niente. Ritornammo tutti a casa.
L’arresto
Nel frattempo avevamo conosciuto un certo Carlo Aprile di Cimia, che si spacciava per partigiano (era il fratello del principale del nostro fratello minore): egli ci propose di fuggire in Svizzera, ma la mamma aveva paura di attraversare le montagne, voleva ci mettessimo in salvo noi giovani; naturalmente non pensammo nemmeno lontanamente di abbandonarla (…)
Sapemmo più tardi che Carlo Aprile non era un partigiano, ma un agente dei nazisti: l’interprete che venne ad arrestarci con i tedeschi ci disse che era stato lui a denunciarci tutti, per denaro: per ogni ebreo denunciato c’era un premio di cinquemila lire!
Fummo arrestati tutti il 5 maggio 1944: eravamo in nove (la mamma, mia sorella, mio fratello, una zia, un cugino con la moglie e due bambini, il più piccolo di otto giorni). Alle sei del mattino di quel terribile giorno (venerdì) stavamo ancora a letto, quando sentimmo bussare alla porta in maniera autoritaria. Compresi subito che venivano ad arrestarci e tentai di salvare mio fratello: egli voleva aprire la porta, ma io glielo impedì, persuadendolo a nascondersi dentro un armadio; poi, in fretta, rifece il letto e a quelli energumeni che picchiando a luce strepitavano perché aprissi, gridai e pazienza mi permettessero di infilare una vestaglia: infine mi decisi ad aprire. Entrarono: erano due, in abito borghese: mi chiesero dove si trovasse mio fratello e mi ordinarono dimostrare loro tutti i bagni della casa poiché non indossavano alcune uniforme e parlavano perfettamente italiano, non è obbligata indovinare chi fosse, almeno finse di non capirlo e arrogante mente Dichiarai che non avrei detto niente finché non mi avessero rivelato la loro identità: risposero subito che erano della polizia tedesca: allora affermare che in casa vi vedo solo con la mamma e la sorella e che gli avrei seguito immediatamente avevamo la porta socchiusa, in camera, e stavamo vestendoci, quando uno degli ufficiali entrò senza chiedere permesso: io, che solo apparentemente mio karma, gli sbatte la porta in faccia, rimproverando della libertà che si aggregava di entrare in camera nostra, mentre davamo così svestite tra parentesi non conosceva ancora i tedeschi e perciò quel giorno fu così ardita!). Alla mia sfuriata si precipitarono tutti dentro, Gaetano non so cosa, perché non capivo una parola di tedesco; era chiaro però che ci minacciavano. Disgraziatamente mio fratello di quelle grida, ne completa il significato, perché ne conosceva la lingua, e precipitò fuori dal nascondiglio e presentando sei tedeschi, disse: voglio seguire anch’io la sorte dei miei, poi rivolta noi ci promise che non ci avrebbe andando nato in quelle mani.
La liberazione
l9 maggio sarebbe dovuto essere il giorno più bello della nostra vita, il giorno della liberazione! Ma non ne capii l’importanza, intontita dalla febbre e dal male: nella nostra baracca ci fu un gran movimento, ci servirono un pranzo squisito, la radio suonò tutto il giorno e gli infermieri erano vestiti a festa. Ma non capivo che una cosa sola: ero separata da mia sorella e ne ignoravo la sorte. Appena mi diedero il permesso di alzarmi, visitai tutti gli ospedali del campo: ma constatai che ero l’unica italiana della zona (…) tutti i giorni scongiuravo il dottore di permettermi di trasferirmi in città per cercarla; ma egli mi spiegava amorevolmente che, seppur guarita e di fisico resistente mi era necessario un vitto abbondante, quale non avrei potuto trovare in città. Stanco però delle mie insistenze, alla fine mi lasciò andare: era giunto il primo camion di vestiario e mi furono assegnati un paio di calzoni verdi da tedesco, una camicia e un paio di scarpe da soldato (tutto il mio vestiario era stato bruciato per disinfezione): potei vestita in quel buffo modo fare finalmente il mio ingresso in città. Mi sembrava di vivere in sogno, in un mondo nuovo: potevo camminare per le strade a braccia delle compagne, anziché in fila a 5 × 5, sotto la sferza; potevo ammirare i bellissimi giardini, le ville sontuose, le case di quella graziosa cittadina: e la mia gioia fu al colmo quando una compagna mi comunico che mia sorella guarita del tifo ed era in convalescenziario, da cui potevo uscire tutti i giorni. Anzi, mi disse “in questo momento si trova nella nostra villa: vieni con me”. La seguii e credo che mai più nella vita proverò un’emozione così intensa due più: la piccola mi gettò le braccia al collo e per un’ora non si staccò da me: tutti i presenti piangevano. Quanto mi aveva cercato essa pure, sempre respinta dalla porta degli ospedali da soldati che non comprendevano le sue parole in italiano!