Testimonianza sulla deportazione dei cugini Bucci-De Simone raccolta da Titti Marrone e pubblicata nel volume "Meglio non sapere".
Famiglie Bucci - De Simone, Andra Bucci, Tatiana Bucci, Sergio De Simone
Auschwitz, Roma
L’arresto
Vennero che era buio. Io e mia sorella eravamo a letto, sotto le coperte. Ricordo che faceva ancora freddo, pur essendo già marzo. Andra aveva ancora un po’ di febbre, io ero appena guarita. Sentimmo quelle voci aspre, frasi incomprensibili. Erano come schiaffi gridati. Non potevamo sapere che le avremmo udito e molte altre volte, fino a imparare anche noi a comprendere e ad usare quelle parole. [Plech] Qualche giorno prima di denunciarci, aveva incontrato per strada mia madre Mira e si è preso la briga di rassicurarla: non avete di che preoccuparvi, le aveva detto. Voi due sorelle e i vostri bambini siete diventati cattolici. E poi non siete ricchi, non avete proprietà e beni che possono stare con la qualcuno.
C’era gente in borghese e c’erano persone in divisa. Mamma era pallida, zia Gipsy stringeva Sergio, pure lui con il cappottino come noi. E poi c’era questo cappotto nero, di pelle, lungo fino a terra. La nonna si inginocchiò davanti alla persona che lo portava. Lo pregò. Chiese di lasciare a casa i bambini e di prendere lei. Pregò e pianse. Fu brutto vedere piangere la nonna, non era mai successo prima. Metteva paura. Fu brutto e inutile, perché ci portarono tutti via.
Sì, dai documenti risulta che fummo presi in otto, e poi ancora ci saranno state altre persone intorno a noi. C’era la nostra famiglia e c’erano altri ebrei presi di notte come noi, caricati sul camion, o autoblindo, o chissà che cosa, dove fummo ammassati. Ma gli occhi della memoria ci mostrano solo noi due sorelle e la mamma. Solo noi tre, e intorno a tutto buio, fino alla risiera di San sabba.
La liberazione e il ritorno
(...) da tempo non pensavo più alla mamma. Ero sicura che fosse morta. Sulle prime era venuto a trovarci ad Auschwitz ogni giorno, credo anche esponendosi a un certo rischio. La sua baracca non era lontana dalla nostra. Ci portava un pezzo di pane, ci ripeteva i nostri nomi perché non li dimenticassimo. Non so perché, ma per me usava il nome di Liliana, invece che quello di Tatiana, già allora preferito da tutti. Io la trovavo strana, così smagrita, con quel camice a righe, il viso pallidissimo e senza più i suoi bei capelli lunghi. Mi sembrava diventata molto brutta, e ne avevo anche un po’ paura. Poi improvvisamente non l’abbiamo più vista, dentro di me ero convinta che fosse morta, finita in mezzo a quei mucchi di ossa disseminati dappertutto nel campo, quindi, quel giorno a Lingfield, quando ci mostrarono la foto e ci dissero che mamma e papà erano vivi, e che presto gli avremmo raggiunti, non riuscivo a credere che fosse tutto vero, che ce ne saremmo proprio andate via di lì.
(…)
Il viaggio, ne sono abbastanza sicura, fu molto lungo, durò almeno un paio di giorni. Poi, un mattino di dicembre di cui non so dire il giorno esatto, ci trovammo a Roma Termini. Ad aspettarci c’era moltissima gente, c’era un’automobile fin sotto il binario, e c’era la mamma. Ma per noi due è quella signora che piangeva era un’estranea. Certo, l’avevamo riconosciuta nella foto, Assomigliava alla sposa sorridente, in elegante tailleur e con la veletta sugli occhi, che avevamo guardato ogni sera ritratta vicino a papà. Ma un conto era vederla fotografata, un conto era sapere di dover andare a vivere con lei dopo due anni e mezzo che per noi erano stati un tempo infinito. Così il distacco da Miss Lauer, per me e per Andrea, si trasformò in un’esperienza dolorosissima. Significava rompere di nuovo il nostro equilibrio fu come se avessero amputato una parte di noi stesse, e fu doloroso anche per la nostra accompagnatrice, miss Lauer. Piangemmo molto e certo per nostra madre non fu facile accettare quella esplosione di sconforto. Avevamo dimenticato del tutto l’italiano, ma in compenso potevamo esprimerci in tedesco ceco e inglese. Con mia madre avremmo ripreso a comunicare in tedesco, la lingua imparata ad Auschwitz, con mio padre in inglese, studiato a Lingfield e tra noi due, perché nessuno ci capisse, la lingua segreta era il ceco.
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