Nata nel 1930, Stefania Ajò alla Liberazione è una ragazza di 14 anni e ha due sorelle Silvana e Marcella. Il padre Valerio aveva un negozio di forniture per sarte in via del Tritone. La madre si chiamava Enrica Ottolenghi. Con tutta la famiglia aveva vissuto i mesi dell’occupazione nascosta in una casa di via Biella, a Roma, messa a loro disposizione da un amico non ebreo con la complicità del portiere. Il giorno della Liberazione è per lei il giorno più bello della sua vita, e lo racconta vividamente: il passaggio dell’esercito, con i reparti di varia nazionalità e anche di vario colore, la gioia della popolazione. E ancora, il passaggio insieme al resto delle truppe della Brigata Ebraica, con la stella di David sul braccio, il segnale che le persecuzioni subite dagli ebrei erano finite.
LA STORIA
“Le nostre sofferenze iniziate nel 1938 con le leggi razziali sono finite” dice Stefania Ajò raccontando la liberazione di Roma. Perché la liberazione è stata per gli ebrei non solo fine della caccia all’ebreo portata avanti durante l’occupazione da fascisti di Salò e tedeschi, ma anche fine di una storia di persecuzione durata cinque anni, iniziata con la perdita dei diritti e proseguita con la perdita delle vite. Cinque anni di antisemitismo di Stato, di propaganda diffusa di cui ancora la storiografia esita a valutare il peso e gli effetti. E ancor più, quella Liberazione è stata fine della dittatura fascista, dello squadrismo e dei suoi assassinii, vittoria della Resistenza a cui tanti ebrei hanno partecipata e per cui sono caduti, ricongiungimento infine agli altri italiani, da cui la violenza delle leggi del 1938 li aveva divisi e separati.