Elena Di Porto, ebrea romana, è una figura straordinaria, anomala nel panorama variegato delle donne ebree di quegli anni. Popolana, ribelle al fascismo e all’ambiente famigliare, non è neppure definibile come “partigiana”, dal momento che non fa in tempo ad unirsi ad alcun gruppo partigiano e muore ad Auschwitz, arrestata il 16 ottobre 1943, quando ancora la Resistenza romana si stava cominciando ad organizzare. Non ha lasciato nulla di scritto, ma su di lei abbiamo molte fonti che testimoniano della sua vita. Era nata a Roma nel 1912, nel quartiere dell’ex ghetto, figlia di Angelo e Grazia Astrologo. Sposata con Cesare Di Porto e separata, aveva due figli e per campare faceva la domestica. Dal 1940 al 1942, per essere intervenuta a difesa di un ebreo picchiato da una squadraccia fascista, fu assegnata al confino di polizia. Nel 1943 era a Roma, libera. Mentre i nazisti occupavano Roma assale con altri giovani ebrei un’armeria e viene nuovamente arrestata. Sarà liberata il 28 settembre. La sera prima della razzia del 16 ottobre piomba in ghetto. Ha avuto sentore del rastrellamento, forse da una famiglia per cui lavorava, ed esorta tutti a fuggire. È fuori di sé, scarmigliata, ha l’aria della pazza, nessuno le dà retta. Durante la razzia, dopo aver messo in salvo i suoi figli, vede sua cognata sul camion coi suoi bambini e sale con lei. Muore ad Auschwitz, probabilmente all’arrivo perché non c’è traccia di una sua immatricolazione. LA STORIALa storia di una popolana, povera e ribelle. Fu mandata al confino perché considerata un’oppositrice del regime. Fu spostata da un luogo all’altro, come sappiamo dai rapporti dei direttori dei luoghi di confino, perché “strana”, rompiscatole insomma. Fu anche più volte ricoverata in manicomio, come tante donne di quegli anni che non si adattavano alla vita famigliare e alle norme sociali. Tentò di opporsi con le armi all’occupazione nazista. E tentò invano di avvisare i suoi correligionari della razzia del 16 ottobre. Lo racconta il grande critico letterario Giacomo Debenedetti, allora nascosto a Roma, nel suo 16 ottobre 1943, scritto nel 1944, chiamandola invece di Elena, Celeste, un episodio ripreso nel film di Lizzani, L’oro di Roma. E sembra che sia salita spontaneamente sui camion nazisti per aiutare la cognata e i nipotini, quando avrebbe potuto salvarsi.