Didattica

La memoria “degli” oggetti

#Oggetti #storia #memoria

Gli oggetti come testimoni: object based learning

Questo modulo propone riflessioni e attività a partire dagli oggetti conservati nei musei. Tracce preziose che affiancano quelle scritte e orali. Nell’object based learning è l’oggetto a essere al centro dell’esperienza di apprendimento. In questo modulo i docenti possono guidare la classe nella sperimentazione di questo approccio.

La tazza di Sylva Sabbadini

Questa piccola tazza, di proprietà del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, è appartenuta a Sylva Sabbadini, deportata e sopravvissuta alla Shoah.

Una giovane ragazza deportata e sopravvissuta con la madre; una tazza appartenuta forse ad un bambino o una bambina, non sappiamo chi, recuperata dalla madre di Sylva nei magazzini in cui erano stoccati tutti gli oggetti sequestrati all’arrivo ad Auschwitz e regalata alla figlia.

La tazza, infatti, è stata prodotta a Porsgrund, in Norvegia, da una fabbrica di ceramiche ancora oggi attiva; si tratta di una produzione databile agli inizi del ‘900.

Un oggetto quotidiano eppure prezioso, che per Sylva e la madre diventa simbolo di ritorno alla vita nonostante tutto; un oggetto che è anche memoria di un nome perduto, della bambina o del bambino arrivati ad Auschwitz portando con sé quella tazza. Un oggetto che grazie alla donazione degli eredi al MEIS continua e continuerà a testimoniare la sua storia.

Le testiomonianze di Sylva

Sylva Sabbadini (1950 - 1960 circa)

Archivio Fotografico CDEC

Sylva Sabbadini fu una delle 3 persone, rispetto alle 47 deportate da Vò Vecchio, a fare ritorno. Solo negli anni 2000 ha trovato la forza di raccontare la sua storia. Scomparsa nel giugno 2019, è sepolta al cimitero ebraico di Milano.

“Questo era il numero che ci mettevano appena arrivati, perché le persone non avevano più nome, allora andavamo per numeri. Ed eravamo tutti numerati così, noi non eravamo più persone, eravamo senza identità. 16455.

[…]

È venuto il federale in persona a prenderci e ci han portato via. Ci han portato in quella villa sui colli Euganei dove siam stati sei mesi e poi son venuti i tedeschi con due camion e ci han portato alla Risaia di San Sabba a Trieste. Già c’era il camino che fumava. Già gli uomini li facevano lavorare e li bastonavano, e siam stati quindici giorni in quelle condizioni. Dopodiché i famosi carri bestiame, e ci han portato ad Auschwitz.

Eravamo stipati in questi carri bestiame, e siam stati tre giorni e tre notti tutti insieme, senza poter far niente, vi lascio immaginare cosa poteva essere. E siamo arrivati ad Auschwitz Birkenau che eravamo distrutti.

Come ci è aperto il portellone c’era Mengele, famigerato, che faceva così. Man mano che la gente scendeva, che li buttavano giù col calcio del fucile “los los los”. Man mano che scendevano lui faceva col dito così, destra sinistra, destra sinistra. Mia nonna a sinistra, camere a gas. Noi a destra, per lavoro, divise dagli uomini.

[…]

E poi siam finite in queste baracche, che erano una cosa incredibile, incredibile.

Al mattino ti svegliavano alle cinque, poi due ore di appello fuori, con la neve, mezze nude. Bastava che uno tossisse o facesse un qualsiasi rumore, ci mettevano giù in ginocchio in mezzo alla neve con le mani così sulla testa. Dopodiché, andavamo fuori da quel famigerato cancello e ci portavano fuori a lavorare.

Insomma siam state lì un anno.

Le ciminiere che continuavano a fumare in continuazione. E si sentiva..era tutto il campo, era tutto invaso da questa puzza di carne bruciata.

Son venuti un giorno a prenderci in tre ragazze nel bloc, e ci han portati in questo camerone grandissimo che era l’anticamera di Mengele, dove faceva gli esperimenti; allora a un certo momento è venuta fuori l’infermiera, ne ha presa una di noi tre ragazze, l’ha portata dentro e ha detto a noi di andar via e ci hanno riportato nel bloc. E quello è stato il padre eterno, perché se io entravo sotto le mani di Mengele non si sa cosa faceva.

[…]

I tedeschi son scappati una settimana prima che arrivassero i russi, perché l’armata russa avanzava, si sentivano le cannonate dell’armata russa che avanzava, e i tedeschi avevano una fifa maledetta e son scappati una settimana prima. Allora prima di scappare, son venuti nei bloc “loss loss loss” che volevano che andassimo con loro; allora mamma mi dice “Sylva cosa facciamo?”. Dico “mamma non stiamo più in piedi, morte per morte moriamo qua, dove andiamo che non stiamo più in pedi?”. E loro si son portati via tutta sta gente che poi lungo la strada gli han fucilati tutti: da lì la marcia della morte.

E noi siam rimaste lì. Dopo sono arrivati i russi. Sono arrivati dentro i militari dell’armata Rossa che ci guardavano come se vedessero i marziani.

[…]

Noi siam rimaste una settimana da soli: i tedeschi son scappati, i russi non erano ancora arrivati. Allora i prigionieri che potevano ancora stare in piedi sono andati a spalancare tutti quei magazzini dove loro avevano accumulato tutte le cose che avevano portato via agli ebrei. Io non stavo più in piedi. Mamma ha detto “vado a vedere”. Lei è arrivata con questa tazzina in mano e mi ha detto “gioia mia guarda cosa ho trovato?!”. Era già screpolata come voi la vedete, e così l’ho tenuta. Mi ricorda mamma.

L’intervista completa

Abitavamo a Padova, dove mio padre faceva l’ingegnere. Io sono una di quelle ragazze che quando nel 1938 entrarono in vigore le leggi razziali venne espulsa da scuola. Mio padre, che era un funzionario del ministero dell’Agricoltura, perse il lavoro. Un giorno il questore di Padova arrivò a casa nostra e disse a mio padre che era venuto il momento di tagliare la corda e così scappammo in campagna ospiti di una famiglia di contadini.

[…]

Quando arrivai ad Auschwitz avevo tredici anni e mezzo e mi salvai dalla camera a gas perché ero già formata, sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare. Una ragazza della mia età, alta e secca, che viaggiava con me, venne spedita subito a morire. Rimasi sempre con mia madre, lei parlava lo yiddish, la lingua della sua famiglia, e quindi capiva bene anche il tedesco, aspetto molto importante per sopravvivere. Un pomeriggio arrivò nella nostra baracca il dottor Mengele e mi scelse insieme ad altre due ragazze per delle sperimentazioni mediche. Ci trasferirono nell’infermeria. Eravamo sedute e aspettavamo di essere chiamate, intuendo quello che ci aspettava. Uscì l’infermiera e prese una di noi tre, una ragazza dell’est.

[…]

Sentivamo il rumore dei cannoni molto vicino. I tedeschi a quel punto in preda al panico ci chiesero se volevamo fuggire con loro in quella conosciuta poi come la marcia della morte, tutti quelli che accettarono vennero uccisi durante il tragitto. Mia madre mi guardò fissa e mi chiese che cosa dovevamo fare e io le risposi che morire per morire preferivo rimanere lì con lei in infermeria. Eravamo abbandonati a noi stessi, senza forze, quando una mattina sono comparsi dei soldati, parlavano russo e giravano nelle camerate guardandoci sbalorditi, sembravano dei marziani. Se avessero ritardato di quindici giorni saremmo morti tutti.

[…]

L’odore dei cadaveri che bruciavano era insopportabile, volevamo andarcene a tutti i costi. Mia madre conobbe un ufficiale rumeno che ci portò a Bucarest. Una volta lì contattammo il console italiano. Ci venne incontro un uomo elegante che ci portò in un appartamento molto bello dove c’erano altri italiani. Mia madre vide un pianoforte e lo fissò a lungo, senza parlare. Non mi meravigliai, dopo tutto lei era una concertista e come quasi tutti i componenti della sua famiglia suonava il pianoforte e il violino. Erano emigrati agli inizi del ‘900 da Odessa, quando era ancora Russia, a Trieste. A un certo punto si avvicinò a quel grande pianoforte a coda, si aggiustò il seggiolino, iniziò a premere sui tasti. Fu così che ricominciammo a vivere.

L’articolo completo su “Focus on Israel”

Sylva Sabbadini nasce a Monfalcone il 23 febbraio 1928. Figlia di Elio, funzionario del ministero dell’agricoltura, e di Ester Hammer. Il 24 dicembre 1943 viene arrestata con i genitori e lo zio Lazzaro, fratello della madre, a Terraglione Vigodarzere (in provincia di Padova). Condotti dapprima nel campo di concentramento Vo’ Vecchio di Padova, furono poi trasferiti alla Risiera di San Sabba e il 31 luglio 1944 deportati ad Auschwitz, dove giunsero il 3 agosto. Sylva e la madre sono rimaste sempre insieme e sopravvissute, riuscendo a scampare anche alla marcia della morte, liberate dai sovietici il 27 gennaio 1945. La memoria degli oggetti nasce in questi giorni: sarà la stessa Sylva a raccontarlo in un’intervista rilasciata molti anni dopo, quando parlerà della tazza che la madre aveva trovato in uno dei magazzini colmi dei beni sottratti alle donne e agli uomini arrivati ad Auschwitz.

Il padre Elio, dopo essere stato trasferito nel campo di Dachau, era stato qui liberato il 29 aprile del 1945, ma morì poco dopo nell’ospedale del campo (17 maggio 1945). Sylva e la madre non sapranno subito della sua morte, e continueranno a cercarlo almeno fino all’anno successivo. Rientrarono a Padova il 19 giugno 1945.

La tazza è stata donata dagli eredi di Sylva, morta nel 2019, al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS (Ferrara), dove è stata esposta per la prima volta nella mostra “Ebrei nel Novecento Italiano” e pubblicata nell’omonimo catalogo.

La storia della famiglia Sabbadini e del loro ritorno a Padova è raccontata da Elisa Guida nel suo volume “La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah” (Viella, 2017).

Elisa Guida, La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, 2017

Donne nella storia degli ebrei d’Italia. Atti del IX convegno internazionale “Italia Judaica”, Lucca, 6-9 giugno 2005, a cura di Michele Luzzati e Cristina Galasso, Giuntina 2007

La storia di Sylva – Archvio RAI

SCHEDA GUIDA PER INSEGNANTI

Questa scheda consente al docente di guidare la classe in un’attività partecipata che condurrà, tramite la storia della tazza di Sylva.

APPROFONDIRE

La convenzione di Faro

La testimonianza può essere contemporaneamente paragonata a un documento storico, una traccia utile a ricostruire un tassello della Storia, e a un bene culturale, un’eredità culturale così come intesa secondo  la convenzione di Faro.

REMEMBR-HOUSE/CASE DI MEMORIA

L’approccio didattico alla Storia tramite oggetti e fonti documentarie è promosso anche dal progetto europeo di cittadinanza Remembr-House: dalle case e le cose alle esperienze di giovani cittadine e cittadini di oggi.